Cantiere Autobiografia (& SoulCollage®)

Ogni giorno, dalla vita quotidiana e dai media, storie e narrazioni di vario genere ci inseguono, ci assediano; c’è però una storia che vorremmo ancora ascoltare o, forse, provare a narrare a noi stessi: la nostra.

Cantiere Autobiografia

È un Gruppo di incontro   (a orientamento Gestalt) in cui si rielaborerà la propria esperienza di vita attingendo alla risorsa della creatività individuale mediante l’uso di varie tecniche, come scrittura, collage, intreccio, uso delle fotografie personali, narrazione orale, ecc.

Nel 2014, al Cantiere Autobiografia si è aggiunto il SoulCollage®, una straordinaria tecnica di collage di derivazione junghiana.

I Gruppi (che si sono si è già tenuti presso la Casa Internazionale delle Donne di Roma) si svolgono ora privatamente in zona Esquilino, a Roma (Metro A, fermata Piazza Vittorio Emanuele) e sono aperti a tutti, donne e uomini. La partecipazione a tali gruppi è subordinata a un colloquio con Laura Bocci.
 
Formazione: Germanista e Traduttrice letteraria –  Autrice (Rizzoli 2004 e 2006, Manni 2012) – Docente Universitaria a.c. 2003-2011 (Univ. La Sapienza e L’Aquila) -Master in ARTITERAPIA: Operatore della relazione d’aiuto a mediazione artistica a orientamento Gestalt (Facoltà di Filosofia – Università Antonianum, Roma) (2010-11) – Membro dell’ Associazione Internazionale di Arte e Psicologia – membro della Art Therapy Alliance –  Membro di Umana.mente – Frequento in formazione continua la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (Arezzo). Sono Facilitatrice SoulCollage®.
(per chiedere informazioni e per iscriversi, visitate la pagina Contatti)
 
 Il quadro di riferimento per il lavoro del Gruppo è quello dell’ Artiterapia  un metodo di lavoro su di sé che utilizza il linguaggio delle arti con finalità di tipo esperienziale ed espressivo; questa è l’accezione con cui viene utilizzata nel presente progetto (benché in altri contesti e con altre figure professionali essa possa avere anche finalità di tipo strettamente terapeutico e riabilitativo).

 Accanto a questo,  un altro fondamentale punto di riferimento sarà il lavoro della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (Arezzo), diretta da Duccio Demetrio. Ho preso ill suo libro primo “Autobiografia come cura di sé”  (e la sua terminologia) come punto di partenza per l’introduzione che segue.

PERCHE’ LA SCRITTURA AUTOBIOGRAFICA?

Un giorno, nella vita, forse per caso, la necessità di raccontarsi nasce come un’emergenza, un’urgenza, come un dovere o come un diritto, o semplicemente come un piacere, a seconda dei casi e delle circostanze. Si tratta di creare un luogo interno di benessere e di cura, di riconciliarsi con la propria esistenza, di attraversare la compassione e la malinconia, in sostanza di aprire la propria soggettività ad altri scenari e orizzonti. E’ un lavoro che svuota e riempie al tempo stesso, mostrando ciò che è accaduto ai tanti diversi Sé che siamo stati in passato, e ridimensionando quello che potremmo definire l’Io dominante, che si trasforma così nell’Io tessitore – quello che ricostruisce, collega, intreccia, che evoca, ripensa, ricorda, vale a dire “ricolloca”.

Sentire il bisogno di raccontarsi segna una nuova tappa nel percorso della maturità. I ricordi si configurano come un’aggregazione che muta in base agli affetti : essi cambiano nel corso della vita, ed è infatti solo nella maturità che si è in grado di darsi un metodo e dei criteri per interpretare, vale a dire per stabilire nessi, concordanze, coincidenze. Fissare tali metodi e criteri permette di fare ciò che prima non eravamo in grado di fare, ad esempio: prendere le distanze dalle illusioni necessarie; guardare all’istante presente e insieme al passato; sentire di esserci, e qui la psiche ribadisce il fatto di aver vissuto tanti “presente” nel passato (Sant’Agostino: non esistono né passato né futuro, ma esiste solo il presente, il presente passato e il presente futuro). E consente inoltre di vedere la vita come un continuo, incessante lavoro conscio e inconscio di tessitura; di riannodare i fili del passato e di ricomporre i frammenti dell’esistenza. Per questo si utilizzeranno varie tecniche artistiche e creative, dalla scrittura alla tessitura/intreccio, dalla narrazione orale all’uso delle fotografie personali, dal collage al disegno, e così via.

A questo punto della vita dobbiamo imporci di accettare variazioni di stile, diventando polilogici, cioè capaci di parlare diversi linguaggi; vale a dire, come riuscire a sentire un senso di pienezza anche privo di specifiche spiegazioni. L’autobiografia è dunque una forma di tregua riflessiva che crea un senso di pienezza dell’esistenza: unus et multi in me, dice l’Adriano di Yourcenar, perché all’interno di noi stessi ci sono intere “popolazioni dell’Io”.

Non a tutti però è concesso di raggiungere questo stato, forse è privilegio solo delle culture con alto grado di complessità sociale. Ed è anche certo che questo Io plurale può anche, in certe condizioni critiche, diventare fonte di stress e nevrosi. Tuttavia, l’etica autobiografica non è una ricerca di autoassoluzione, ma un’avventura e una ricerca interiori oneste e coraggiose, una conversazione intima: solo così si può dare vita alla tregua. In essa, emergono le capacità curative dell’autobiografia, è anche una cura sui, una cura di sé, come ad esempio nel caso di Proust. Cinque, secondo Demetrio, le condizioni perché questo accada:

  • dissolvenze: provare piacere nel ricordare anche se le immagini si ripresentano come sbiadite e vaghe nei contorni;
  • convivenze: comunicare ad altri queste storie/ricordi evanescenti è molto benefico, rompe l’isolamento;
  • ricomposizioni: il ricordare raccontando ha il potere di tenere insieme. Gettando reti di coerenza tra i ricordi, li trattiene e li collega, facendoli dialogare tra loro;
  • invenzioni: da questi giochi di connessioni scaturisce una grande creatività perché l’immaginario autobiografico è manipolabile a piacimento. Qui entra in gioco la scrittura vera e propria, che ci prende per mano e ci porta altrove, ovunque, forse anche (o soprattutto) là dove non si aveva nessuna intenzione di andare;
  • spersonalizzazioni: non c’è cura profonda se restiamo intrappolati nei nostri pensieri e compiacimenti, la nostra ricerca autobiografica dovrebbe occuparsi anche di storie altrui. E inoltre c’è sempre bisogno di un altro che ci ascolti, e questo a partire dai grandi modelli dell’autobiografia, Sant’Agostino, Montaigne e Rousseau.

Tutto nasce in fondo dal pensiero platonico, in quella dianoia che è colloquio dell’anima con se stessa, dove il proprio pensare è al contempo soggetto e oggetto. Il ricordo è animato dal desiderio-nostos, però trattenuto e contenuto dal potos (letteralm. sete, o tazza, cioè il contenitore), è una propria personale archeologia del sapere (Foucault), che parte dall’emozione della scoperta e poi si trasforma in passione e orgoglio per i ritrovamenti fatti, e infine per lo spaesamento finale di questa ricostruzione. Abbiamo veramente vissuto, proprio noi, quelle cose? Nell’attimo stesso in cui diventiamo capaci di questo, proviamo l’emozione di una rinascita, ridefinita attraverso un nuovo stile e una scrittura in base ai quali ora esigiamo di essere riconosciuti dagli altri. In questo percorso i reperti sono importanti, tutti, dalle lettere alle fotografie, e sarà importante anche aver dato, a suo tempo, un nome alle cose affinché esse possano diventare dei ricordi.

I ricordi si organizzano e vengono riattraversati sia in modo diacronico, vale a dire cronologico, in forma di sequenze, ma anche come sistemi attorno a certi momenti-perno, che sono i più carichi di senso e costituiscono gli snodi (Borges) della nostra impalcatura personale.

Ma cosa dunque raccontare, come scegliere tra l’immenso materiale biografico? Ogni storia di vita è un contenitore di cose (i fili di Pessoa) ma, di esse, cosa raccontare?

Intanto ci sono le testimonianze tangibili, gli oggetti raccolti e conservati e che, sia che li teniamo sia che decidiamo di liberarcene, questo ha un senso e una o molte ragioni. Il loro significato costituisce un habitat di memoria, un tessuto di parole che lo rende parlante, esplicito, perché noi siamo anche tutte le cose che siamo stati, che abbiamo posseduto, fatto, raccolto o dismesso, e che solo noi sappiamo cosa significano per noi. Bisogna dunque andare a ricercare quel significato nella memoria per riviverlo e poi poterlo osservare col pensiero. In questo modo le cose si rimaterializzano e si risignificano ed emerge più chiaramente il legame simbolico che abbiamo con esse. Così il libro che scriviamo diviene una sorta di “bacino di confluenza” di infinite cose ed emozioni ricordate, delle forti pregnanze intorno a temi fondanti come amore, lavoro, ozio, morte. Ma la ricostruzione della vita offre anche l’opportunità delle varianze, perché si ricostruisce romanzando, e questo è permesso, perché ciò che vale è il ricordo del ricordo e non tanto il ricordo in sé. Un’ultima categoria per elevare l’autobiografia al rango di esercizio dell’intelletto oltre che del cuore è quella della distanza e dello sdoppiamento, sempre salutari.

Se possediamo la capacità di scrivere possiamo considerarci dei privilegiati, membri di una fortunata élite: per varie e complesse ragioni, infatti, a non tutti quelli che avrebbero desiderio e bisogno di raccontare la propria storia è concesso di farlo. Ma consigli su come scrivere di sé non se ne possono dare, se non quello – fondamentale – di appassionarsi alla propria storia e poi di trovare un luogo quieto e appartato e di avere a disposizione una superficie per scrivere. La domanda centrale, per noi come per i grandi autori di autobiografia del passato, si appunta intorno a quello che Milan Kundera ha definito l’enigma dell’Io, vale a dire la domanda “Io chi sono?”.

Per “iniziare a scrivere”, poi, è necessario sottolineare con forza l’importanza dei nessi animatori che permettono di incrociare il contenuto delle pagine “a tema” (personaggi della mia vita/viaggi/dolori/amori/rinunce/richieste di aiuto/sogni/trasgressioni, ecc.) o pagine delle cose con le età della vita già attraversate. Ma noi siamo anche tutto ciò che non abbiamo fatto, a volte siamo stati solo testimoni di eventi accaduti ad altri, di cui però forse l’eco risuona ancora in noi, nella nostra vita: così il canovaccio della nostra narrazione si articola e si arricchisce, e può emergere il bisogno di una trama o plot (che rappresenta “il disegno e l’intenzionalità della narrazione, una struttura per tutti quei significati che si sviluppano grazie alla successione cronologica” – Brooks, Trame, Einaudi, 1995, p. 13).

Poi, a questo enorme materiale si possono dare una infinità di versioni, letterale o elegante, e anche infinite forme: ad es. la forma del romanzo nelle sue tante varianti: di formazione, di avventura, d’amore, di viaggio, giallo, ecc.; oppure la forma della novella intimista, del reportage, del racconto in prosa poetica, del saggio breve, o della cronaca esperienziale. Più affini all’autobiografia, il memoriale, il romanzo personale, il poema autobiografico, il diario intimo, l’autoritratto, e infine la biografia.

Ma il personaggio chiave siamo sempre noi stessi, immersi nella fabula, che è poi la nostra storia, e circondati da un’abbondanza di infinite procedure e artifici narrativi (sjuzhet, li definisce Propp) come anticipazioni, flashback, periodi riassuntivi, finestre filosofiche o saggistiche, passaggi descrittivi, salti cronologici, ecc.

La scrittura (nella forma autobiografica) può anche essere utilizzata nell’analisi di sé filosofica e narrativa (non psicologica né terapeutica- è bene precisarlo – spazio riservato a chi lo fa di professione). Dall’autobiografia come risorsa personale e termometro del proprio benessere siamo passati all’ascolto degli altri e delle loro storie di vita, che possono essere utilizzate come strumenti per educare e formare – in primo luogo forse se stessi, e poi eventualmente altri, un’ambizione che questo libro esplicita ripetutamente. In sostanza, fare autobiografia ci migliora – nel suo analizzare, smontare, rimontare, inventare, collegare, ordinare, classificare e così via – ad esempio nell’affinare le abilità e le competenze cognitive per raggiungere una maggiore sicurezza intellettuale, per una moltiplicazione di curiosità e di interessi che, prima, non avremmo nemmeno sospettato di avere.

Bibliografia

Alle/ai partecipanti al gruppo non viene proposta nessuna bibliografia di studio , ma solo di eventuale riferimento personale. Farò riferimento soprattutto al lavoro di Duccio Demetrio (Università Statale di Milano) – di cui ho ripreso la terminologia in questo progetto – tra i più importanti studiosi italiani di autobiografia. Fondamentali i suoi “Raccontarsi-L’autobiografia come cura di sé” (R.Cortina, 1996), “Autoanalisi per non pazienti-Inquietudine e scrittura di sé” (idem, 2003) e “ Perché amiamo scrivere – Filosofia e miti di una passione” (idem, 2011). Inoltre seguirò le seguenti “tracce”: J. Brooks, “Trame “ (Einaudi, 1995), O. Rossi, “Lo sguardo e l’azione” (uso della foto e del video nella relazione d’aiuto), S. Adiutori “La tecnica del collage e il lavoro autobiografico” (Rivista Artiterapie Nuove, 2012, N. 15)

Sitografia

– Autoritratto relazionale